giovedì 16 gennaio 2014

Rivelazioni

RIVELAZIONI



Il maître percorre frettolosamente il corridoio e bussa alla porta dell’ufficio. Senza attendere la risposta apre la porta e fissa compassato l’uomo al di là della scrivania, urtato dall’intromissione.
«Signor Guidi, credo dovrebbe venire in sala.»
Il direttore chiude seccamente il telefono. «Che cosa succede di assurdo questa volta? Il ghiaccio è poco ghiacciato o le aragoste stanno scorrazzando per la sala pizzicando le chiappe di qualche vecchia mummia?»
«Peggio.»
«Cosa c’è di peggio di una povera aragosta che si ritrova davanti il sedere di una tardona?»
«C’è che si stanno prendendo a cazzotti. E se lei non viene immediatamente fra un po’ voleranno anche le sue dannate sedie in stile Luigi XVI.»
    
La sala ricevimenti La Corte del Re è gremita di varia umanità e non tutta decente. Abbiamo diverse emule di Sandokan (fusciacca in vita compresa), una che probabilmente si crede un pappagallo giamaicano e una che, invece, pensa di vivere in Inghilterra.
Non che vivere in Inghilterra sia un reato. Ma se vai ad un matrimonio con una specie di disco volante in testa che colpisce naso o fronte di chiunque tenti di parlarti, è comprensibile essere sconcertati.
Gli uomini, poi, non fanno testo: tutti chiusi in abiti tristanzuoli che vanno dal blu, al blu notte, dal nero al nero notte (se mai esista tale sfumatura giurerei che tutti i parenti di Paolo si siano messi d’accordo). Insomma, se non fosse per il mio abito color champagne, parrebbero una congrega di becchini a scrocco accompagnati da numerose fan di Moira Orfei.
Sto discretamente annoiandomi e quindi osservo con perfidia i Guelfi, come li chiamo io. Gente ipocrita, esageratamente cattolica e decisamente rompipalle.
I miei, invece, appartengono ai Ghibellini e l’Imperatore sono io, la mia tv satellitare, Desperate Housewives e un certo ateismo che alla mia cara suocera dà sui nervi.
Paolo è scomparso da qualche minuto. Il mio solerte e nuovo maritino si è immolato per la Patria (cioè io), andando tavolo per tavolo a sorbirsi le solite stronzate post primo cocktail alcolico da matrimonio. Probabilmente deve essere fuggito fuori per tentare di riprendersi dalle palpatine rattose di vecchiarde che gli dicono, lacrimose: «Tutta salute! Tutta salute!»
Personalmente non ho mai sopportato pizzicotti sulle guance, sotto il mento e pacche sul sedere da sedicenti pseudo parenti, acquisiti o meno che siano. E al tavolo dei “quasi morti” come ho perfidamente scritto sulla lista, c’è un vasto campionario di uomini e donne che hanno visto secoli (non anni) migliori. Tamburello sul tavolo con le mie unghie perfette e osservo disgustata uno zio di Paolo: sembra l’Uomo Pizza di “Balle Spaziali” e mangia a quattro palmenti. Mi scappa quasi uno sghignazzo poi, per darmi un contegno, centellino un sorso di vino bianco. Una specie di sbobba dal nome francese che ci è costato uno sproposito e che a me ricorda invece il vino in brick, quello del discount.
L’unica che manca all’appello è mia sorella Lucilla. Non è riuscita a venire da Amsterdam a causa di un impegno di lavoro. Però ci ha fatto un regalo fantastico: 15 giorni in Africa. Con la sua agenzia di viaggi ci ha confezionato un tour da sogno ed io non vedo l’ora di ritrovarmi in Kenia, con un Margarita in mano e niente parenti ubriaconi e orribili davanti.
A proposito di ubriaconi, a ore dodici (quindi proprio verso di me) sta zampettando Arturo, zio di circa mille anni e onta della mia famiglia. L’ho invitato per fare un dispetto a mia suocera.
Orbene, zio Arturo è un ubriacone conclamato ed è il più rissoso della mia famiglia, altrimenti tranquilla. Memorabili sono le sue battutacce agli altrui matrimoni. Mentre lo zio tenta di approdare al mio tavolo, già a cinque metri di distanza il fetore alcolico lo precede, stendendomi. Mi alzo precipitosamente e penso bene di battermela. Come alibi agguanto il cellulare e fuggo poco dignitosamente, devo dire, all’esterno della sala.
Al mio passaggio dispenso sorrisi (fintissimi) ai Guelfi, ricambiata da altrettanta ipocrisia.
Scampato il pericolo di un ballo con zio Arturo e mia immediata caduta per terra a causa di quest’ultimo, mi chiedo cosa fare.
Magari chiamerò Lu per ringraziarla del regalo strepitoso e le dirò che zio Costanzo ha un nuovo parrucchino. Così, veleggiando leggiadramente sulle mie fantastiche pianelle di raso, imbocco l’anticamera della sala, silenziosa e fresca.
E poi, ne ho le palle piene di baci bavosi e abbracci sudati di circa 150 persone. Ai matrimoni dovrebbe essere severamente vietato avvicinarsi alla sposa quando si gronda di sudore misto a soffritto di cipolle. Mentre sono indecisa se dirigermi verso il lussureggiante giardino esterno o stravaccarmi su una qualche poltrona dove non ci siano parenti vari in agguato, il fato decide altrimenti: Pipì e Pupù stanno rientrando dal giardino.
Non sono due cani, bensì damigelle d’onore impostemi da mia suocera. Damigiane, più che damigelle, vista la stazza che hanno. Avranno dei nomi, immagino, ma non riesco mai a ricordarmene. Le due bambinette, simili a maiali infiocchettati, attraversano di corsa l’ingresso e si fiondano verso la sala.
Se la mia paura era quella di essere vista da Pipì e Pupù, posso star tranquilla, in quanto quelle due termiti sono più interessate a spazzolare qualsiasi cosa sia commestibile, piuttosto che starmi fra i piedi.
Sto per lasciare il mio nascondiglio di fortuna (una gigantesca pianta in vaso), quando vedo aprirsi di nuovo la porta: altri parenti, questa volta miei, che escono per fumarsi una sigaretta. Ma cos’è, la stazione?! Non possono starsene seduti a ingurgitare quel dannato pranzo pantagruelico di 15 portate?! Sbuffando arretro silenziosamente e imbocco un corridoio a destra, che porta verso altre due sale piccole adibite al riposo momentaneo degli ospiti: una è un fumoir invernale, intimo e accogliente. L’altra non ricordo, forse un vomitorium visto quanto ci stiamo ingozzando. 
Quello che mi fa fermare vicino alla porta del fumoir è una voce. Maschile.
Ma quello non è Luca, il testimone di mio marito? Ah, è assieme a Paolo. Sto per allontanarmi discretamente, quando un gelo improvviso mi inchioda sul posto, costringendomi ad origliare.
Dopo alcuni minuti mi allontano velocemente e silenziosamente da quel corridoio. Uscita in giardino mi trovo un posto nascosto. Dopo essermi accertata che non ci sia nessuno nei paraggi, guardo il cellulare e mi chiedo se avrò il coraggio di riascoltare ciò che ho appena registrato.
Faccio un respiro profondo e cerco il file. Lo riascolto diverse volte, fin quasi a saperlo a memoria. Una strana nausea mi stringe lo stomaco.
Dopo diversi minuti di bestemmie degne del peggior scaricatore di porto e una serie di calci ben assestati ad un cespuglio, mi dico: “Pensa, Bea, rifletti”.
Cosa provo in questo istante? Sconcerto. Questo è poco ma sicuro. E rabbia. Come hanno potuto?, mi chiedo, stringendo i pugni.
E adesso che devo fare? Misuro a grandi passi il mio rifugio e mi accorgo che la soluzione è una e una sola.
Appena presa la decisione, una calma soprannaturale mi spinge a rientrare in sala, ad affrontare il mio destino. Ho un piano in mente.
Se devo andare a fondo io, ci andrà anche Paolo.
«Amore! Dove sei stata? Ti ho cercata dappertutto!»
«Ti ho preparato una sorpresa che ti piacerà moltissimo! Vedrai, vedrai…» faccio un sorriso a trentadue denti e dalla faccia che fa lo stronzo devo risultare convincente al punto da non destare alcun sospetto.
Appena ci sediamo mi immergo di nuovo nei miei pensieri. Come diavolo è che non ho capito niente?! Sto con lui da un milione di anni circa, lo conosco come le mie tasche! E invece, il giorno del mio dannatissimo matrimonio, scopro che le “tasche” in questione sono bucate, dato che mi è sfuggito un piccolo, grande particolare.
Un cameriere mi piazza davanti una magnifica aragosta adagiata su un letto di insalata. Lo stomaco fa una capriola ma poi mi dico: “Perché no? Mi godrò questo pranzo fino all’ultima maledetta fetta di torta!” e, stranamente, l’aragosta è buona. Anzi, divina.
Dopo poco mi scuso con Paolo e mi avvio verso il cameraman che sta riprendendo parenti sbrodolanti e gatte morte a caccia di mariti. Gli sussurro delle istruzioni e, accertatami che il ragazzo abbia capito, mi dirigo poi verso il dj. Gli mostro il telefono e, dopo poco, il file è stato riversato sul pc di quest’ultimo. Infilo le cuffie e ascolto per pochi istanti. L’audio è perfetto. Svolta questa parte del piano, torno a sedermi: ci sono dei deliziosi asparagi che stanno attendendo di essere gustati.
«Sei felice, amore?»
«Certo, Bea. Abbiamo coronato un sogno che ha fatto la felicità di tutti. Guarda mia madre com’è contenta! A proposito, sono curiosissimo di sapere che sorpresa mi hai fatto!»
«Porta pazienza, Paolo, tutto a suo tempo.» concludo enigmatica.
E intanto la giornata prosegue la sua folle corsa verso una catastrofe assicurata. Parlo, ballo, canto, rido, scherzo, mangio e bevo. Mi comporto come un’oca giuliva, ma intanto il mio cervello registra tutto. Ogni sospiro, occhiata, grattata, sussurro, risatina. Nulla mi sfugge.
Il mio bicchiere del vino è costantemente pieno, ma sono ore che bevo solo acqua: per quello che ho in mente, occorre che io sia estremamente lucida. Quando mi sento pronta per affrontare la fossa dei leoni, mi alzo e mi dirigo verso la pedana del dj. Con un cenno discreto chiamo anche il cameraman.
Afferro il microfono e, mentre il dj sfuma la musica, sorrido. È arrivato il momento delle rivelazioni:
«Oggi, cari amici e parenti, sarà un giorno memorabile per me e Paolo.»
Dal suo posto, Paolo sorride rilassato.
«Sarà davvero memorabile, amici, soprattutto per i miei suoceri, a cui brindo in maniera particolare.» e alzo con perfidia il calice verso di loro, che fanno lo stesso.
«Oggi, infatti, sono stati celebrati due matrimoni: uno d’amore e l’altro di ipocrisia.»
A quest’ultima parola molta gente aggrotta la fronte.
«D’amore perché io credevo che Paolo mi amasse. Di ipocrisia, perché, dopo otto anni assieme, scopro che non è mai stato così. Pertanto non intendo rimanere sposata per altri cinque minuti con un bugiardo. Potrete venire a ritirare i vostri regali fra 15 giorni, quando tornerò dal mio viaggio di nozze.»
Un gelo pesantissimo cala su tutti gli ospiti, mentre la gente si volta a fissare un Paolo incredulo e mortalmente pallido. Sussurri concitati percorrono la sala.
«Voglio condividere con voi quello che ho scoperto poche ore fa. Di cattivo gusto, come le persone che hanno architettato il tutto: i miei suoceri, Paolo e il carissimo amico Luca.» faccio un cenno al dj, allibito, il quale manda il file.
Luca: «… averlo fatto?E io, allora? Non conto niente per te?!»
Paolo: «Fra noi non cambia assolutamente nulla! Questo matrimonio è una farsa! Sai bene che non mi è mai fregato né di Bea, né di altre donne! Poi come potrei mai amare una con le caviglie grosse e che russa disgustosamente la notte? Tra l’altro a letto è deprimente!»
Luca: «Taci! Come puoi credere che io non soffra quando tu parli di quella tua orribile mogliettina etero?! Quella vecchia stronza di tua madre lo avrebbe accettato se tu solo ti fossi imposto anni fa!»
Paolo: «Non parlare così di mia madre! Te lo proibisco!»
Luca: «È colpa sua se siamo infelici! Quella vecchiaccia malefica mi odia!»
Paolo: «Sai benissimo che i miei sono vecchio stampo!»
Luca: «Certo! Sposarti con Beatrice è giusto! Tutto per l’apparenza, no? Poi nel tuo privato mammina ti permette di stare con me! Vecchia ipocrita…»
«Grazie, può bastare così.» faccio fermare il file, mentre in sala la gente è ancora stordita. Paolo ha una mano sugli occhi, mentre i miei mi guardano increduli, per poi fissare, a turno, i genitori di Paolo e, per ultimo, Luca.
«Io e le mie… caviglie grosse ci associamo cordialmente al pensiero di Luca nei confronti della mia ex suocera. Per quanto riguarda te, Paolo, anche tu a letto sei sempre stato una mezza sega, ora capisco il perché.»
Le mie parole sferzanti, seppur dette con pacatezza, colpiscono come una mazzata. Il silenzio cristallino viene rotto improvvisamente dallo zio Arturo che, allibito e inferocito, si alza e molla un cazzotto sulla bella faccia di Paolo. Da quel momento si aprono le danze, in senso metaforico. Mia madre afferra la mia ex suocera per capelli e la prende a schiaffi.
Dopo poco il parapiglia diviene generale. Con suprema indifferenza verso i sentimenti altrui, di cui non mi frega molto in questo istante, mi godo lo spettacolo della faccia offesa e sbigottita della mia ex suocera quando mia madre, incitata da zio Arturo, le getta in faccia un bicchiere di vino. Davvero impagabile.
Poi mi incammino verso la stanza messaci a disposizione. La farsa è finita, voglio levarmi di dosso un abito che è stato insudiciato dalle menzogne.
Sto soffrendo? Non precisamente. Ero troppo abituata alla presenza di Paolo, quindi non è che mi si stia dilaniando il cuore. Sotto sotto devo aver sempre saputo che Paolo fosse omosessuale. Non gli ho mai letto passione negli occhi, né quell’urgenza di fondersi con la mia pelle. Non so spiegarmi, ma sentivo che mancava qualcosa.
Cambiata di tutto punto, afferro il mio trolley e mi dirigo verso la sala per sparare l’ultima, perfida cartuccia.
Mmm, niente sangue o coltelli in vista, i camerieri sono stati solerti a far sparire le posate. Peccato. Una forchettata ben assestata sulla mano di mia suocera non mi sarebbe dispiaciuta, ma nella vita non si può avere tutto.
Noto con soddisfazione che Paolo ha un vistoso occhio nero, mentre Luca ha una mascella gonfia. La fidanzata di Luca viene tenuta a distanza, ma se uno sguardo avesse potuto uccidere, Luca sarebbe morto da tempo. La mia ex suocera ha i capelli sfatti e il trucco sbavato, mentre il costosissimo abito in seta è tutto bagnato e macchiato ad altezza seno. Sembra presa da un attacco di lattazione furiosa, tranne che dal suo seno stilla vino, anziché latte. Il padre di Paolo è seduto e si guarda affranto i piedi.
Hanno perso tutto in un attimo: faccia, privacy e sessualità filiale, sbandierata ai quattro venti senza alcuna pietà da quella che credevano essere una nuora perbene.
Sensi di colpa? Niente affatto. Mi hanno preso in giro per otto anni, cazzo. Non mi chiamo certo Madre Teresa di Calcutta io.
Il direttore della sala ricevimenti tenta di calmare gli animi, ancora esagitati. I miei genitori gli stanno parlando concitatamente.
Nessuno mi ha ancora notata, quindi la mia voce tranquilla è come uno sparo nel buio:
«Sarà risarcito di tutti i danni, non si preoccupi. Faccia una stima e gliela mandi. Così come la fattura relativa al pranzo. Quanti eravamo?» fingo di pensarci su, «Centocinquanta o vado errato?» e sorrido glaciale.
I miei ex suoceri, i quali sembrano sul punto di svenire o di avere un infarto, mi guardano quasi con disperazione.
Poi sorrido angelica al direttore: «Potrei avere la torta avanzata? Grazie, era buonissima.»
Tutti mi fissano come se fossi un marziano e a me viene quasi da ridere. Quando un cameriere mi porta il vassoio con la torta, mi volto verso il direttore:
«È stato tutto eccellente. Ora devo scappare, sa, fra meno di 24 ore mi aspetta il Kenia.»
Così, trolley alla mano, mi avvio verso l’uscita fra un’ala di parenti ammutoliti e che, scommetto, non dimenticheranno mai il mio matrimonio grottesco.
Non mi volto a fissare Paolo o la sua famiglia. La mia vendetta è completa.

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