giovedì 16 gennaio 2014

Intervista a Fabio Pinna, creatore del sito "Leggere a colori"



 Buonasera a tutti. Dopo aver 

realizzato un'intervista molto interessante a Fabio Pinna

creatore del sito Leggere a colori, vi riporto qui la 

chiacchierata.


Credo che saranno in molti a trovare degli spunti 

interessanti, per cui: buona lettura.


  • Chi è Fabio Pinna? Dimmi, in poche righe, qualcosa di te.
  • Sono un ragazzo con la passione per i libri e per la scrittura. Scrivere è sempre stato come respirare per me, il miglior modo per spiegare, per sognare e stare bene.
  • Hai fondato il sito “Leggere a colori”: mi spieghi cos’è?
  • Leggere a Colori è l´evoluzione di un blog personale su cui ho passato molte notti insonni a scrivere. Mi son reso conto che se volevo condividere con più persone i miei scritti e la mia passione dovevo offrire qualcosa di più, sia usare mezzi più professionali dal punto di vista tecnico che offrire contenuti culturalmente interessanti. Poi son arrivati i servizi di promozione agli autori, le rubriche e altre idee di cui il merito è dei miei collaboratori.
  • In base a cosa hai scelto lo staff del sito?
  • In base alla disponibilità e alla qualità dei loro scritti. Non è mai bello lasciare fuori qualcuno eppure il nostro impegno è offrire contenuti di qualità in maniera regolare. Questi sono i presupposti per poter collaborare con noi.
  • Quali sono le competenze di coloro che collaborano a “Leggere a colori”?
  • Ci son scrittori e amanti della scrittura, abbiamo una psicologa che segue la rubrica di psicologia, e impiegati in altri mestieri che amano i libri e scrivono per noi dopo il lavoro. Abbiamo anche laureandi che recensiscono libri e un’agenzia letteraria che collabora con noi.
  • Qual è la filosofia di “Leggere a colori”?
  • Il nostro motto è “Work inspired” perché lavoriamo mossi dalla passione. Sia nelle storie che presentiamo, nelle poesie o nelle stesse rubriche di cultura cerchiamo di metterci sempre qualcosa di nostro, di trasmettere colori.
  • Parliamo del rapporto autori-sito: quali sono i propositi di “Leggere a colori”?
  • Leggere  a Colori pubblicizza i grandi autori con le recensioni e le interviste. Questa è la nostra priorità. Ma ci impegniamo anche per pubblicizzare opere di autori emergenti con dei costi molto contenuti. Un autore può così raggiungere una certa visibilità nella durata della promozione e magari vendere qualche copia in più. E a chi si chiede perché siano a pagamento spiego che cerchiamo di stare nelle spese della nostra piattaforma e relative al tempo necessario per la lettura e la promozione.  
  • Affrontiamo un tema spinoso: l’editoria. Cosa si propone di fare il tuo sito e che differenze ci sono con altri siti similari?
  • Noi conviviamo con gli editori, siamo una cassa di risonanza che a loro serve per far conoscere i propri titoli, a noi servono loro perché il nostro obiettivo è conoscere i libri e presentarli al pubblico. È una simbiosi. Inoltre insieme all´agenzia letteraria selezioniamo manoscritti per la pubblicazione con editori non a pagamento. Offriamo anche servizi editoriali come editing e correzione di bozze e molto altro. Ma più di questo non faremo, per ora. Leggere a Colori si distingue dagli altri siti e blog culturali principalmente per un fatto: noi mischiamo scrittura con lettura. Proponiamo pezzi da leggere, storie, racconti, pensieri e non solo notizie, classifiche o curiosità sul mondo dei libri. Questo ci permette di essere vari, di offrire qualcosa in più.
  • Rimanendo in tema di editoria: cosa ne pensi degli Editori a pagamento?
  • Penso che non avrebbero motivo di esistere. È una risposta crudele, e son conscio della difficoltà dell´editore per vivere nel nostro panorama. Però penso anche a chi ha fatto i conti di fare guadagni facili sulle spalle di autori sprovveduti, magari autori che non sono nemmeno pronti per pubblicare. Ho visto in prima persona molti casi spiacevoli di questo tipo perciò opto per consigliare di starne alla larga.
  • Oggi, su internet, molti si riversano nel Self Publishing. Quali sono, secondo te, le differenze fra il Self Publishing e una Casa Editrice?
  • La promozione innanzitutto, ma anche il processo che porta un manoscritto a diventare libro. Parliamo della qualità del prodotto finale, come viene confezionato e come viene venduto. Il Self Publishing è un rischio, è come mettere in vendita un’auto senza aver la sicurezza che il motore sia a posto. Piuttosto che farsi prendere dal desiderio, legittimo, di condividere il proprio lavoro a tutti i costi consiglio di investirci sopra: cercare una buona agenzia letteraria o un buon editore, lavorare per migliorarlo, lavorare per promuoverlo.
  • Quanto conta, secondo te, un editing completo, che vada dalla lettura del manoscritto alla correzione di bozze di quest’ultimo?
  • Il prezzo dipende dal numero di pagine, noi proponiamo circa un euro a cartella.
  • Quanto è importante la veste grafica di un libro, in termini di vendite?
  • Non ho dati ufficiali, la domanda è interessante. Suppongo che conti, non in maniera decisiva, ma in maniera rilevante. Lo neghiamo tutti ma spesso abbiamo comprato dei libri di cui non avevamo mai sentito parlare solo per la copertina.
  • Quanto è importante il titolo di un libro per la sua riuscita editoriale?
  • Molto, conta che sia molto corto e usi meno parole “abusate” possibili. In generale il concetto espresso dal titolo non si deve capire a copertina chiusa, deve essere un invito al lettore di scoprire il nesso tra l’idea del titolo e la storia.
  • Perché scegliere “Leggere a colori”?
  • Ho sempre visto le emozioni come colori, noi vogliamo trasmettere qualcosa quando scriviamo. Ci mettiamo i colori.
  • Ho letto, nella sezione “Per te!”, che siete in contatto con un’Agenzia Letteraria. Da dove nasce questa collaborazione e come si chiama l’agenzia?
  • Nasce da un incontro sul web. L’agenzia è la Icaro Talentagency con cui condividiamo la stessa passione e un rapporto professionale solido.
  • Un manoscritto di successo per te deve essere…
  • Originale. Si è scritto di tutto, quindi inutile fare repliche di cose già lette, soprattutto quelle famose. Dobbiamo avere uno stile nostro, scrivere correttamente, padroneggiare metafore, esempi, introspezione, dialogo e altre componenti necessarie ad una storia. Ma tra tutto ripeto l’originale, leggere cose scontate è frustrante.
  • Parliamo di saghe e trilogie facendo qualche esempio: “Harry Potter”, “Twilight”, “Il Signore degli Anelli”. Secondo te, qual è il segreto del loro successo?
  • Ogni libro che ha un seguito possiede un’attrattiva diversa a mio parere. In parte questo è il motivo, si tratta poi di letture non impegnative quindi adatte al grande pubblico, anche a chi non è un grande lettore. E per ultimo anche la grande copertura dei media ha facilitato poi il boom del genere stesso.
  • Quanto è importante, per un libro, un battage pubblicitario mirato?
  • Essenziale. La promozione è fatta di mille cose, interviste, social network, grafica, presentazioni, partnership con librerie e associazioni culturali etc. Essere presenti e attivi è essenziale.
  • Parlami, a grandi linee, di un manoscritto che ti hanno inviato e che ti è piaciuto moltissimo e di uno che, invece, non ti è piaciuto affatto.
  • I manoscritti non li valuto io.
  • Una dritta per gli esordienti: quali sono, secondo te, gli errori da evitare nello scrivere una storia?
  • Non dare alla storia una struttura equilibrata, ignorare i tempi con cui si sta scrivendo. Quando si scrive o si corregge è sempre bene avere un percorso, dei paletti che ci aiutano a non essere troppo prolissi o brevi o di andare fuori argomento o iniziarne troppi. Anche se si scrive in maniera estemporanea una bozza di programmazione può essere utile. Quanto ai dettagli più pratici sugli errori da evitare ti rimando alla nostra rubrica “Scrivere+” , di cui uscirà una puntata alla settimana, che tratta approfonditamente il tema ponendosi come valido aiuto per gli scrittori www.leggereacolori.com/rubriche/scrivere-meglio

  • Da chi è stato pensato e in cosa verterà il corso di scrittura creativa? In quante lezioni, o articoli, consterà?

  • L’idea è del nostro collaboratore Frank che ha molta esperienza nel campo ed è sempre a caccia di nuovi talenti.
  • Sarà composto inizialmente da 10 puntate di cui la prima online domani Venerdì 17 Gennaio e affronterà a 360 gradi il mestiere di scrivere. Come scegliere le parole, come strutturare il testo, consigli su come rendere uno scritto uno scritto migliore e un´analisi di errori comuni da evitare. L’obiettivo è dare degli strumenti nelle mani dei nostri lettori per migliorarsi, e senza spendere un cent.
 Ringrazio Fabio Pinna per la sua gentilezza nel rispondermi. Chiunque voglia avere maggiori dettagli può visitare il sito http://www.leggereacolori.com/





La casa delle bambole

    La casa delle bambole


La vecchia Chevrolet Camaro di un verde scolorito ansimava e arrancava lentamente su Charles Street, mentre dalla radio usciva la voce graffiante di Bruce Springsteen. Mitchell Harris prese a tamburellare a tempo di musica con le dita sul volante, sbuffando seccato per via del traffico.
   «Dài, dài.» Mormorò a bassa voce a nessuno in particolare.
   Cosa diavolo gli era pigliato quel giorno? Lui non faceva mai quella strada! Solo un idiota avrebbe allungato di quasi un chilometro per tornarsene a casa e, ciliegina sulla torta, aveva una voragine tale che avrebbe mangiato persino la gamba di un tavolo pur di ridurre al silenzio il suo stomaco!
   Si fissò meditabondo nello specchietto retrovisore e si ravviò i folti capelli ricci. Poi strabuzzò gli occhi nocciola chiaro e fece una smorfia.
   Doveva dormire un po’ di più, dannazione. Altrimenti sarebbe arrivato a trentacinque anni decrepito e con le zampe di gallina. Oppure, si disse meditabondo, avrebbe dovuto scroccare a Fiona qualche cremina di bellezza. Quelle poltiglie che metteva prima di andare a dormire le rendevano la pelle delicata come il sederino di Glenda quando era piccola.
  Al pensiero di Glenda un tenero sorriso si affacciò sulle sue labbra e dimenticò le rughe, la stanchezza e la stempiatura imminente.
   Ad un tratto la sua attenzione si focalizzò su un negozio alla sua destra. Incuriosito, si sporse verso il sedile del passeggero per guardare meglio ma, proprio in quell’istante, un raggio di sole colpì la vetrina, abbagliandolo.
   Alle sue spalle un clacson lo fece sobbalzare, così lasciò di scatto la frizione e accelerò. Con la vecchia Chevvy bisognava essere rudi, dato che il cambio decideva da solo se far inserire la marcia oppure no. Ci mancava solo il botto dal tubo di scappamento e sarebbe stato davvero come nei film, si disse Mitch con un risolino.    Fiona sapeva immancabilmente quando lui stava per rientrare: in effetti, il rombo di Arnold (tutti i catorci di Mitch erano stati battezzati), si sentiva lontano un miglio.
  Eppure, si disse con affetto, dando una manata sul volante consumato, Arnold ne aveva viste di tutti i colori assieme a lui…
  Con un sorriso nostalgico stampato sulla faccia, si voltò e si accorse di un ragazzino che lo fissava apertamente, fermo vicino al suo finestrino.
  Aveva il moccio al naso e si godeva un enorme lecca-lecca rosso e bianco a girandola. La sua faccia, a dir poco antipatica, era corredata di uno sgradevole naso a patata e di due occhietti porcini. In effetti, le sue fattezze ricordavano moltissimo quelle di un cinghiale.
  Mitch lo osservò infastidito, ma quello non batté ciglio.
Allora calò il finestrino:
«Ti serve qualcosa, ragazzino?» chiese gentilmente, seppur lievemente seccato per essere stato interrotto nei suoi ricordi.
Il cinghialotto scrollò le spalle e, leccando leccando, si voltò e si dileguò in una stradina laterale.
  Mitch scosse la testa perplesso e poi si rese conto, con stupore, di essere parcheggiato.
   Doveva piantarla di fantasticare alla guida. Non era la prima volta che gli succedeva, ma non rendersi addirittura conto di aver svoltato dalla via principale…
  Fece per riaccendere Arnold quando, fissando distrattamente lo specchietto retrovisore, vide qualcosa che gli accese lo sguardo.  
  «Non può essere…» si disse, dubbioso. Ma già la mano aveva girato automaticamente la chiave e i suoi piedi stavano poggiando sull’asfalto. Fu un attimo chiudere la portiera (ma tanto nessuno avrebbe avuto coraggio di fregarsi una vecchia Chevvy asmatica e scassata) e dirigersi verso la sua meta.
   Si fermò davanti alla vetrina e avvicinò le mani e gli occhi al vetro polveroso. Un sorriso lento gli si allargò sulla faccia. 
   Eccitato e rosso in viso aprì baldanzoso la porta, non prima di aver rimirato quella meraviglia in vetrina. Dio, era un amore!
   «C’è nessuno?» Chiese con voce esitante, nella speranza che i commessi non fossero a pranzo.
   Poi, dopo un’occhiata circolare si disse che probabilmente, per quanto faceva schifo quel luogo, era abbastanza improbabile che ci fosse un commesso.
   In effetti sembrava più una discarica che un negozio.
   La bottega era male illuminata, ma Mitchell notò, con una smorfia di disgusto, un terrificante insieme di ciarpame affastellato su scaffalature che dividevano in due corsie l’esiguo spazio, rendendolo ancora più cupo e claustrofobico.
   Non avendo ricevuto risposta alcuna, si addentrò cautamente in quella specie di labirinto, stando bene attento a non urtare nulla, dato che c’erano cose indefinibili che sporgevano e che facilmente avrebbero potuto impigliarsi nella sua giacca, con risultati catastrofici.
   Mitch si voltò indietro, come per accertarsi che l’oggetto in vetrina fosse ancora lì. Di nuovo sicuro, superò cataste di vecchi quadri ammonticchiati l’uno sull’altro, caffettiere sbeccate, bastoni da passeggio e bric-à-brac di incerta natura.  
   Arrivato al grande e vecchissimo bancone osservò la merce impilata su delle mensole: tutta robaccia di poco valore.
  Stava per infilare un dito in un cesto posto lateralmente sul bancone quando un movimento sulla sinistra lo fece trasalire: una tenda nera, che non aveva visto, si era scostata per lasciar passare un ometto. I due si fissarono incerti, poi l’altro si riprese e gli sorrise.
   «Mi scusi, non devo averla sentita entrare.» Disse con un morbido accento che lo faceva somigliare ad un vecchio lord inglese.
   Mitch ricambiò il sorriso: «Luogo affascinante. Mi spiegherebbe a cosa mai servono questi…ehm….cosi
   «In effetti, quei cosi non servono ad un bel niente, dato che è solo ferro vecchio.» Prese un pezzo contorto e arrugginito e, dopo averlo fissato con scetticismo, lo ributtò nella cesta, pulendosi le mani:
   «Da buttare, per la precisione.» Poi sorrise. «Ma non credo lei sia interessato a questa robaccia, dico bene?»
   «Effettivamente il mio sguardo si è posato su qualcosa che lei ha in vetrina e… la prego, non mi dica che è già venduta! Pagherei qualsiasi somma pur di averla!»   
   Gli occhi dell’uomo si raggrinzarono mentre il sorriso si faceva più ampio.
   «Credo di aver capito di cosa sta parlando. Vuole vederla?»
   «Se per lei non è troppo disturbo…»
  L’uomo inarcò un sopracciglio, un po’ stupito da tanto fervore, ma non replicò e, sollevato un lato del bancone, gli fece cenno di seguirlo.
  L’ometto era bassino e grassottello, mentre le sue mani erano curiosamente magre e lunghe. Gli occhialini rotondi e dalla montatura color oro, poi, gli fecero venire in mente quel personaggio di Dickens. Come si chiamava quella specie di ebreo cattivo in Oliver Twist? Mentre continuava a scervellarsi, l’uomo si fermò accanto alla vetrina.  
   «Questa, vero?» e indicò una imponente casa delle bambole inglese, in stile georgiano.
   «Esatto.»
   «Posso sapere per chi è?»
   «È per mia figlia Glenda.»
   «Bene, bene. Perché questa è una casa speciale, sa? Una casa davvero speciale.» Poi ridacchiò e si fregò le mani dalla contentezza. «Una casa speciale per una bimba speciale, eh?»
   Fagin!
   Ecco come si chiamava il ladro cattivo! L’ultimo ad interpretarlo al cinema era stato un attore inglese che lui amava moltissimo, ovvero…
   «Ben Kingsley!» disse, dandosi una manata sulla fronte. «Ma certo! Lei è la copia spiccicata di Ben Kingsley, gliel’hanno mai detto?»
   «Prego?» chiese educatamente l’altro, con una mano poggiata sul tetto della casa e l’altra a mezz’aria.
   Mitch, vedendo che la faccia del proprietario diventava sospettosa, scosse la testa e farfugliò: «Lasci stare.»
   Il negoziante si schiarì la voce e fece un sorriso titubante, guardandolo come se fosse diventato improvvisamente uno psicopatico pericoloso a cui non doveva assolutamente voltare le spalle, pena un coltello infilato nella schiena e una morte atroce e dolorosa. 
   «Vuole che le mostri l’interno?» scandì lentamente.
   «Certo.» rispose Mitch, abbagliandolo con un sorriso da Bravo Ragazzo Americano che avrebbe rassicurato persino Adolf Hitler e Ted Bundy.
   Fagin (perché oramai nella sua mente quello sarebbe stato il suo nome), scosse impercettibilmente la testa e voltò la casa verso Mitch, aprendola.
   «Ecco, vede? Ci sono quattro stanze: la cucina e il salotto al pianterreno, poi le scale e qui abbiamo il bagno e la camera da letto.» Aprì il sottotetto e lo fissò con un paio di bastoncini in legno. Mitch si chinò estasiato a fissare il letto matrimoniale corredato di poltroncina con pizzi e volants, la specchiera arzigogolata con dei ninnoli sopra e le applique color oro alle pareti.
   «Sono di plastica?» chiese, additandole.
   «No, no. Tutto rigorosamente in metallo. E si accendono pure!» Fagin si chinò dietro il retro della casa e inserì la spina nel muro, poi premette un tasto e le stanze si illuminarono di colpo.
   Mitch trattenne il fiato.
   «Guardi qui.» Sussurrò poi, eccitato, aprendo lo sportellino sotto la cucina in ghisa: «Legna per il fuoco! E qui» riprese aprendo lo sportello più grande, «c'è il pollo che cuoce in forno. La cena per i signori è servita!» terminò con una risatina gioiosa, battendo le mani. 
   Mitch si chinò ad osservare la cucina e la madia in legno all’interno della quale vi erano diversi piattini e tazzine minuscole. Le tendine erano di cotone a scacchi bianchi e blu come il pavimento. Il tavolo era marrone e vi erano quattro sedie con la paglia. Mitch ne prese una in mano e la osservò da vicino: la paglia era vera. La rimise delicatamente a posto e sorrise di tenerezza nel vedere una servetta seduta con in braccio un bambino a cui dava la pappa da una scodella posta sul tavolo.
   Sbirciò nel bagno e vide diversi flaconi e profumi posti su di un alto mobile marrone. Nella stanza vi erano due ragazzini: uno in piedi su uno sgabello, davanti al lavabo mentre si lavava i denti e si fissava allo specchio, e l’altro che era appena uscito dall’enorme vasca con i piedi a zampa di leone. Quest’ultimo aveva un asciugamano drappeggiato attorno ai fianchi. Mitch lo prese e ne osservò il viso: il ragazzino appariva corrucciato e scocciato. I lineamenti erano così veri che lui capovolse il giocattolo per vedere dove fosse stato costruito.
   «Sono tutti così realistici…»
   «Sono artigianali.» L’ometto glielo prese di mano e lo risistemò con delicatezza vicino alla vasca.
   «Le bambole le fornisce assieme alla casa o sono a parte?»
   «No, no. Tutto ciò che è qui dentro appartiene alla casa! E tutto ciò che non c’è fa parte del mondo reale.»
   Mitchell lo fissò aggrottando la fronte ma, non capendo il senso della frase scosse la testa e fissò il salotto, dove un capace divano rosso amaranto troneggiava innanzi ad un camino. Alle spalle del divano vi era un mobile massiccio a tutt’altezza. Le ante di vetro custodivano gelosamente moltissimi libri minuscoli.
   Un’angoliera al lato opposto invece, aveva le mensole piene di graziosi ninnoli in ceramica smaltata.
   La stanza terminava con un tavolo monumentale con quattro grandi poltrone rivestite con lo stesso velluto del divano. Sopra il tavolo vi erano quattro tazzine con piattini corredati, una teiera in metallo e un cestino microscopico con tartine all’interno.
   Anche qui, seduti per terra sul tappeto posto innanzi al camino, giocavano tre ragazzini. Due femminucce ed un maschietto, per la precisione.
   Le piccole avevano lunghi capelli acconciati a boccoli, con nastri in tinta sulle teste. La bambola bionda aveva l’abitino sul rosa cipria e le scarpine di vernice nere, mentre l’altra, che aveva dei folti e lucenti capelli color castagna, aveva l’abito azzurro polvere e le scarpine di raso in tinta. Dato che erano sedute a gambe larghe, ad entrambe si scorgevano i mutandoni di pizzo bianco al ginocchio.
   Il maschietto era un po’ discosto da loro e stava chino su un trenino minuscolo. Era anche lui abbigliato in maniera splendida: un completino di velluto nero al ginocchio, con camicia dallo jabot tutto pizzi fermato da uno spillone con la punta microscopica in onice.
   Mitch rabbrividì un attimo: le bambole erano così vere che non si sarebbe stupito se, da un momento all’altro, si fossero animate e avesse sentito le loro vocine rincorrersi per le scale.
   «Guardi la mansarda. Qui, un tempo, ci viveva la servitù. Doveva essere terribilmente scomodo andare a sbattere tutte le sante mattine contro un dannato tetto spiovente, non trova? Come può vedere, anche le loro stanzette erano arredate. Certo, non avevano la magnificenza delle camere padronali ma cosa se ne sarebbero mai potuti fare di quadri e argenterie? Noti questo scendiletto ai piedi del misero giaciglio: riprende fedelmente quello dei padroni di casa.
   «Chissà se il camino faceva fumo… scommetto che, per aver inserito anche un braciere, le loro stanze dovevano essere delle vere ghiacciaie in inverno.» Fagin spostò distrattamente il braciere più vicino al letto.
   «E quello cos’è?» Mitch additò un oggettino minuscolo posato su un comodino nella camera da letto padronale.
   «Oh, quella! È sicuramente il pezzo che più amo in questa bellissima casa!» Rispose eccitato, prendendola delicatamente fra le mani.
   «C’è una tale maestria… e l’uso dei colori è così perfetto che mi commuove ogni volta che la osservo!» Fagin afferrò una lente d’ingrandimento posta in bilico su un mare di cianfrusaglie alle sue spalle e gliela porse.
   Con reverente amore gli pose sul palmo aperto l’oggettino e Mitch si chinò ad osservare, poi sollevò di scatto la testa, allibito.
   «Che mi venga un colpo! Una miniatura con tanto di ritratto dentro!»
   Fagin ridacchiò deliziato e batté le mani.
   «Santo cielo, il pittore sarà impazzito per dipingerla Come minimo sarà diventato cieco!»
   «Si dice che l’artista abbia ritratto la donna per la quale la casa venne commissionata. Peccato che non si sappia il nome di nessuno dei due.» terminò Fagin con un sospiro. 
   La donna era bellissima: viso a cuore, occhi azzurri e capelli corvini tirati su in uno chignon raffinato. Addosso aveva un abito rosso accollato, da cui però si intuiva un seno generoso. Alle sue spalle si notava, posta su di un mobile antico, la casa delle bambole.
   Mitch sollevò la testa e fissò la casa, poi tornò a guardare la miniatura, mentre un sorriso meravigliato gli si allargava sulla faccia. Riprese a fissare la miniatura e, con la testa ancora china, disse: «Questa donna, però, non era felice. Magari nascondeva dei segreti, eh?»
L’ometto lo fissò senza proferire parola.
  «La prendo. Se è in vendita, ovviamente.» E restituì la miniatura.
   «Ovviamente.» Replicò l’altro, riposizionando con tenerezza il dipinto e chiudendo delicatamente le ante.
   «Bene, perché io sono avvocato e non avrei mai ceduto, capisce?»
   «Capisco, eccome. Mi segua allora.»
   Giunto al bancone, il proprietario posò con riguardo la casa georgiana sul ripiano e passò dall’altro lato.
   A Mitch non era nemmeno venuto in mente di chiedere quanto costasse. E se non avesse avuto i soldi necessari? Oddio, ma che gli era preso? Non poteva controllare nel portafogli senza fare la figura dell’imbecille.
   Un trillo interruppe i suoi pensieri. Fagin gli sventolò trionfante uno scontrino sotto il naso. 
   «Solo dieci dollari?» replicò Mitch, a bocca aperta.
   Fagin sorrise sornione: «Avrebbe voluto pagarla di più?»
   Mitch, rosso in viso e continuando a farfugliare stupidaggini, cacciò il portafogli e si accorse di avere giusto i dieci dollari richiesti.
   «Non ho quegli aggeggi per le carte di credito, troppo moderni, troppo impersonali… A me piace pensare ancora ad uno scambio dove lei dà qualcosa a me e io a lei, non trova?»
   «Ah, ehm… sì, certo.»
   Ma Fagin si accorse che il giovane cincischiava lo scontrino e non vedeva l’ora di prendere possesso dell’agognata casa. Così uscì da dietro il bancone e con un sospiro disse: «Le aprirò la porta. Mi segua.»
   Mitch afferrò la casa, più pesante del previsto, e prese a seguire Fagin verso l’uscita.
   «Anime meravigliose i bambini, non crede? Li preferisco agli adulti. A proposito, sua figlia… quanti anni ha?»
   «Glenda ha sei anni. Ed è bellissima, oltre che bravissima a scuola.» Rispose Mitch, con una nota di orgoglio nella voce.
   Fagin gli aprì cortesemente la porta: «Non lo metto in dubbio. Credo che Glenda si divertirà moltissimo con questa casa.» E lo salutò con garbo. «Torni quando vuole. Se ha bisogno di altro, adesso sa dove trovarmi.»
   Appena la porta si fu richiusa alle sue spalle, a Mitch venne in mente una domanda che avrebbe voluto porre a Fagin: perché non vi erano bambole adulte?
   Quando ebbe parcheggiato nel vialetto della loro villetta a schiera Mitch, le chiavi di casa fra i denti e un’espressione buffa e scanzonata sul viso, si affacciò alla finestra della cucina. Scosse la testa e le chiavi tintinnarono allegramente.
   Fiona, sobbalzando di spavento nel vederlo, scoppiò poi a ridere e corse alla porta d’ingresso.
   Sua moglie, alta e flessuosa e dai capelli lunghi e rossi, gli tolse le chiavi di bocca e lo baciò ardentemente. Poi lo osservò con occhi maliziosi.
   «Se questo è l’antipasto, non oso immaginare quando arriveremo al dolce.» Mitch inarcò le sopracciglia alla Groucho Marx e Fiona rise di nuovo.
   «Se farai il bravo avrai il dolce, altrimenti nemmeno la ciliegina.» Poi si accorse di ciò che il marito aveva fra le braccia e corrugò la fronte. 
   «Cos’è quello
   «Questa?» Mitch sorrise e si avviò alla camera di Glenda. «Un regalo per la piccola. È un’autentica casa georgiana, o così mi ha detto Fagin.»
   «Fagin? Chi è Fagin?» replicò Fiona, seguendolo. «Mitch, aspetta un attimo! Non vorrai che quel ricettacolo per topi stia nella stessa stanza dove nostra figlia dorme?» Fiona lo guardò scettica.
   «Credo proprio sia antica. Non hai idea delle meraviglie che ci sono dentro!»
   La porta si aprì e comparve il visetto lentigginoso di Glenda: capelli rossi come quelli della mamma, ma ricci come quelli di Mitch. Gli occhi, di un bellissimo verde foglia, erano un regalo dei nonni irlandesi di Fiona. Da grande sarebbe diventata una vera bellezza, poco ma sicuro.
   «Papino, sei tornato!» strillò la piccola, abbarbicandosi alle sue gambe.
   Mitch per poco non cadde per terra. Sorrise con amore alla figlia e le disse di scostarsi per farlo almeno passare.
   Fiona incrociò le braccia al petto e scosse la testa, poi fece un passo avanti ma, sentendo un odore strano, si ricordò dell’arrosto messo nel forno. Avvisandoli di lasciar perdere quella casa, che tanto non se ne scappava mica, corse in cucina a controllare che nulla fosse bruciato.
  
   «Glenda, tesoro, finisci la colazione. Lo scuolabus sarà qui a momenti.»
   Fiona accarezzò la testolina rosso fiamma della figlia e si accostò alla finestra per vedere l’arrivo del pulmino giallo.
   La piccola sbadigliò e si stropicciò gli occhi. «Ho tanto sonno, mammina.»
   «Anche io, alla tua età, facevo fatica a svegliarmi.» Nella sua voce si intuiva un sorriso.
   «Davvero?»
   «Già. A proposito, quasi dimenticavo!» Si voltò di scatto e prese l’involto con i sandwich. Lo infilò velocemente nello zainetto della figlia e la osservò con amore.         Glenda aveva il visetto pallido e due occhiaie violacee.
   Fiona scosse la testa e la redarguì severa: «Stasera cerchiamo di andare a dormire presto, eh, signorinella?»
   Glenda si alzò dal tavolo, stiracchiandosi. «Ma mamma! Io vado sempre a dormire presto. Mary e Annabelle invece…»
   «Non ricominciamo, Glenda. Lo sai che non puoi andare a letto tardi. Vedi la mattina cosa succede, poi?» ma la tiritera di Fiona venne interrotta da un vivace colpo di clacson. «Forza, piccola. Eddy è già qui!» La aiutò ad indossare il giubbino verde chiaro e le diede un bacio. Glenda si avviò alla porta che ancora mugugnava.
   Appena il pulmino fu ripartito, Fiona si accinse a rassettare la casa.
   Entrata nella camera di Glenda, vide che la casa delle bambole era aperta e con tutti i mobili spostati. Due bamboline giacevano a faccia in giù sul pavimento.
   Si chinò sulla casa e raccolse le due bambole, osservandole. Nessuna delle due aveva una faccia felice, anzi, l’esatto contrario. Fiona si chiese se la persona che le aveva dipinte fosse infelice o che, perché aveva trasmesso un umore funereo ai giocattoli.
   Accosciata sui talloni studiò le stanze con un’aria di disgusto. Cosa ci trovavano di così speciale Mitch e Glenda in quella catapecchia?
   I mobiletti erano usurati e qualcuno persino scheggiato. Le pareti, una volta rivestite di tappezzerie damascate, avevano delle macchie di muffa asciugata e vicino agli zoccolini erano vistosamente mangiucchiate dalle tarme. Il divanetto nel salotto aveva il rivestimento consunto e strappato. E poi, c’era qualcosa in quella casa…
   Non sapeva spiegarselo, ma avvertiva come una sensazione. Era come se la casa la tenesse in antipatia. Sì.
   Appena ebbe formulato il pensiero, Fiona scoppiò a ridere e si rialzò: «Certo che di tutte le stronzate che pensi, questa le batte tutte!» richiuse le ante della casa e si accinse a rifare il letto della figlia. 
  
   «Pop-corn! Pop-corn per tutti!» strillò Fiona. Subito Mitch si infilò a razzo nella cucina e abbracciò la moglie, improvvisando un valzer e facendola ridere.
   «Questo non ti darà diritto a più pop-corn.»
   «Ah no?»
   «No.»
   «Allora mi vedrò costretto a rubarli sotto il tuo naso col favore delle tenebre! A proposito, dov’è Glenda?»
   Fiona fece una smorfia: «Indovina un po’?»
   «Mmm… okay, vado a chiamarla io.» E sparì nel corridoio.
   Fiona sentì le voci del marito e della figlia mentre si avvicinavano al salotto.
   «… ma certo che sì, però adesso è ora di cena. Papino ha preso un bellissimo dvd di cartoni animati e…»
   «Cosa? Cosa hai preso papino?» Fiona sorrise nel sentire i saltelli deliziati della figlia.
   Erano dieci giorni che Glenda giocava sempre con quella dannata casa. Lei le aveva provate tutte per staccarla da lì, ma sembrava che la bambina ne fosse letteralmente innamorata.
   Rientrando in salotto con una zuppiera piena di pop-corn trovò le luci già spente. Come al cinema, aveva strillato Glenda, battendo le manine. Si posizionò in mezzo a loro sul divano e tre mani voraci si infilarono in quel mare di profumato mais bianco.
   Mentre il cartoon andava, Fiona osservò di sottecchi sia Mitch che la figlia. E il cuore le fece un balzo nel petto: Glenda aveva un’aria davvero malsana, smunta.
   Stasera, si disse, preoccupata. Appena messa a letto la piccola, avrebbe fatto una chiacchierata con Mitch.

   «Mitch, dobbiamo parlare.»
   «Mmm?»
   Erano entrambi stravaccati sul divano, con una tazza di tè bollente fra le mani. Le volute di fumo salivano pigramente verso il soffitto e lui le osservava quasi ipnotizzato.
   «Sono preoccupata per Glenda.»
   Mitch si voltò verso Fiona, la fronte aggrottata: «C’è qualche problema con la scuola?»
   «Peggio.»
   «Allora cosa?»
   «La casa.»
   «Quale casa?» le chiese, disorientato.
   «Quella casa che le hai regalato. La casa delle bambole.»
   Mitch sbuffò. «E dài, Fiona, ancora con questa storia. Te l’ho già detto: presto se ne stancherà e…»
   «Sono dieci giorni che Glenda non si stacca da quella… quella cosa. Tu non ci sei il pomeriggio, ma io sì. E ti assicuro che è sempre piantata lì. Non gioca nemmeno più con le sue amiche del cuore. Mi hanno telefonato le madri di Mary e Annabelle chiedendomi se ci fosse stato qualche problema e…»
   «E?»
   «Ma niente!» esplose Fiona, innervosita, piazzando di botto la tazza sul tavolino. «Finisce di fare i compiti ed è lì. Finisce di pranzare ed è lì. Finisce di cenare ed è sempre ! La mattina ha più sonno del normale, ha due occhiaie spaventose e sembra malata. Non lo trovi un po’ troppo?»
   «Tesoro» Mitch posò con delicatezza la tazza accanto a quella della moglie e la prese fra le braccia, accarezzandole i capelli, «da bambina anche tu hai avuto una casa delle bambole, ti ricordi?»
   «Sì, ma…»
   «E tu stessa mi dicesti che ci giocasti fin quasi a distruggerla.»
   «Sì, però…»
   «Lascia che faccia i giochi che vuole. Ma ti prometto che domani le dirò due paroline, va bene?»
   Fiona sembrò voler ribattere qualcos’altro, ma tacque e assentì.

   Per qualche giorno, Glenda sembrò tornare la bambina solare che era sempre stata prima di ricevere quel regalo. Le occhiaie si attenuarono e Fiona, fra biscotti e latte al cioccolato, si rinfrancò nel sentire le risatine di sua figlia che giocava con le amichette.
   Ma, passati quattro giorni, Glenda si “re-innamorò” della casa e il silenzio tornò a regnare sovrano nella sua stanza.
   Un lunedì, mentre la sua bambina era a scuola e Mitch in tribunale per una causa, Fiona si piazzò davanti a quel rudere e lo osservò con freddezza.
   La casa appariva sempre più malconcia e rovinata. Il pensiero le balenò in un attimo: se ne sarebbe sbarazzata. Quella cosa la ripugnava, ma lo faceva per il bene di sua figlia.
   Si chinò e la afferrò dai lati. Accidenti se era pesante!
   La casa le sfuggì di mano e ricadde sul parquet, con un tintinnio minaccioso di mobiletti e bamboline. Ma non si sarebbe data per vinta.
   Tornò, munita di uno straccio, glielo fece passare sotto e la spinse verso il garage.
   Qui giunta si guardò attorno ma, come già sapeva, non avevano una carriola. Detergendosi distrattamente il sudore dalla fronte, si disse che avrebbe chiesto ai vicini.
   Doveva assolutamente liberarsi di quell’obbrobrio. E ci sarebbe riuscita, al diavolo il peso!
   Stava giusto avviandosi verso la casa di uno dei loro vicini, quando sentì squillare il telefono in cucina. Indecisa fra l’andare a rispondere o meno, fece un sospiro e rientrò velocemente in casa.
   Quella sera, Mitch trovò un biglietto in cui Fiona gli aveva lasciato le istruzioni per riscaldare il polpettone nel microonde, dato che era dovuta correre in ospedale. La madre aveva avuto un malore ed era stata ricoverata.  
   Il giorno seguente, andando a svegliare la piccola per la scuola, le si inaridì la bocca: la casa era di nuovo lì. Anzi, sembrava che nessuno l’avesse mai mossa dal suo posto.          
   Attese che lo scuolabus chiudesse le porte, poi rientrò in casa e telefonò al marito.
   «Mitchell, non è affatto divertente!»
   «Di che parli?»
   «Ieri avevo messo quella orrenda casa in garage e oggi la ritrovo nella stanza di Glenda!»
   «E quindi?»
   «Mitchell Harris non fare lo stupido! Dimmi solo perché l’hai rimessa nella sua camera!»
   «Stai scherzando? Io non sono proprio andato in quello stupido garage!»
   «Oh, certo! Quindi sono stati i fantasmi, eh?»
   «Tesoro, capisco che sei preoccupata per tua madre e…»
   «Mitch, non mi piace essere presa in giro! Ti avverto che oggi quella casa la faccio a pezzi! Vedrai se non lo faccio!»
   «Fiona…» il resto della conversazione si perse in un brusio fastidioso e lei fu costretta a chiudere.
   Furibonda e con passo battagliero si diresse verso la camera della figlia ma, fatti pochi passi, il telefono prese a squillare con prepotenza. Credendo fosse di nuovo il marito, corse in cucina:
   «No, Mitch, non ci pro… Ah, scusi… Credevo fosse mio marito. Cosa? Sì, sì, vengo subito!»
   La madre aveva avuto un improvviso peggioramento e stava per essere operata d’urgenza al cuore.
   Fiona ebbe solo il tempo di prendere le chiavi della macchina e di correre verso l’ospedale.

   Quella notte, la madre di Fiona morì per un’infezione post operatoria.

   Ma quella notte accadde anche qualcos’altro.
   Mentre Glenda dormiva, delle vocine incalzanti presero a sussurrare il suo nome. La chiamarono con tale e tanta insistenza che la piccola si svegliò. Stropicciandosi gli occhi si mise a sedere sul letto.
   «A quest’ora la mamma non vuole che si giochi assieme, lo sapete.» sussurrò con uno sbadiglio.
   Ma le vocine continuavano a chiamarla, ad insistere, ad ammaliarla.
   «Oh, va bene! Ma giocheremo giusto un pochetto… ho tanto sonno…» Glenda scese dal letto, infilò le pantofoline di Tigro e si accosciò vicino alla casa, aprendone le ante.
   Se qualcuno si fosse avvicinato alla finestra e ci avesse sbirciato dentro, avrebbe visto una bambina seduta per terra, davanti ad una casa delle bambole illuminata.
   E fin qui tutto bene.
   Tranne che per la spina. Che giaceva, vistosa e inerte, ad un metro di distanza dalla presa nel muro.
   Ad una terza occhiata, più approfondita, questa persona sarebbe impallidita di orrore nel vedere che le bambole erano bambini veri.
   Glenda era diventata amica di Sarah, la bambola dai capelli castani. Anche Valerie, quella bionda, non era antipatica, però spesso scoppiava in lacrime e Sarah le sibilava di smetterla. Quando accadeva questo, una delle due cameriere, Jane o Maggie, arrivava e se la portava di sopra. Lì le pettinavano i capelli, o le facevano un bel bagno caldo, o se la prendevano sulle ginocchia raccontandole delle magnifiche storie di castelli lontani e principesse, di maghi cattivi e draghi…
   Tutto questo per farla distrarre.
   A volte Glenda percepiva qualcosa tipo: “Casa”, o “Mamma”. Ma Sarah scuoteva la testa e le chiedeva di giocare e di lasciar perdere quella piagnucolona di Valerie.
   Come quella notte.
   «Ma stanotte non posso fare tardi tardi, Sarah.» bisbigliò Glenda fissando il grande orologio alla parete. La bambola, per tutta risposta, le sussurrò una domanda e Glenda sorrise di felicità e batté le manine:
   «Oh, sì! Sì. Saremo amiche per sempre!» 
  
Il giorno seguente Fiona, distrutta dalla stanchezza e annichilita dal dolore, rientrò a casa. L’alba colorava di rosa i tetti e i mobili della cucina.
   Mitch, stravolto come lei, le preparò in silenzio una tazza di caffè.
   «Glenda?» chiese lei con voce sepolcrale.
   «Dorme ancora.» mormorò lui di rimando.
   «Dovremmo dirglielo?»
   Mitch si stropicciò gli occhi e fissò una macchia di caffè sul tavolo. «Non lo so, Fiona. È così piccola…»
   Gli occhi della moglie si riempirono di lacrime: «Oddio, è così ingiusto, Mitch. La mamma stava bene. Non aveva mai avuto problemi, era giovane, era… era…» scoppiò in accorati singhiozzi e il marito le fu accanto in un attimo. Fiona si aggrappò a lui e pianse un fiume di lacrime. Sembrava non volersi fermare più.
   Inframmezzava frasi in cui Mitch capiva poco: il padre inebetito, la sepoltura che sarebbe toccata a lei, non avendo altri fratelli, l’assurdità di quella morte e non ce la faceva. Non ce la faceva a pensare alla bara, ai fiori e anche quegli stupidi biglietti. E come si chiamava il prete della chiesa dei suoi?
   Mitch le sussurrava dolci parole di conforto, dicendole che non era sola, che aveva lui e che sarebbe andato tutto bene.
   Fiona era sconvolta, aveva gli occhi pesti e stralunati. Non si reggeva in piedi. Il carico emozionale era davvero troppo, in quel momento, per poter ragionare normalmente. Così Mitch la prese in braccio, come faceva spesso con Glenda, e la portò a letto. La moglie non oppose resistenza, ancora scossa dai singhiozzi. Si lasciò spogliare e mettere sotto le coperte.
   «Ci penso io, dormi.» Le sussurrò accarezzandole i capelli. Fiona chiuse lentamente gli occhi, il respiro ancora irregolare, e si addormentò.
   Mitch chiuse la porta con delicatezza e si diresse in cucina. Aveva delle telefonate da fare per organizzare il funerale.

   Qualche ora dopo, non sentendo provenire nessun rumore dalle camere da letto, decise di affacciarsi a vedere come stessero Fiona e Glenda.
   Fiona dormiva un sonno inquieto, spesso si girava e si lamentava. Al marito si strinse il cuore per il dolore. Le si avvicinò e le carezzò i capelli, nella speranza che quel gesto penetrasse nella sua coscienza e la rasserenasse almeno un poco.
   La moglie, dagli inferi in cui era scesa, parve percepire il gesto e il respiro si fece meno agitato.
   Mitch sospirò affranto e uscì silenziosamente per dirigersi verso la stanza della figlia. Onestamente non gli era nemmeno passato per la testa di svegliarla per mandarla a scuola. Era successo tutto così in fretta che solo ora si chiedeva cosa avrebbero dovuto dirle realmente.
   Glenda era molto affezionata alla nonna e la morte, a sei anni, non è un argomento facile da spiegare. Le avrebbe detto le solite fesserie che dicevano tutti gli adulti?
   La nonna è in cielo, a cantare col coro degli angeli.
   Mitch ristette con la mano sulla maniglia, pensieroso. Beh, dannazione, qualcosa doveva inventarsi.  
   Con un sospiro aprì la porta e chiamò dolcemente: «Glenda? Sveglia, principessa.»
   Si avvicinò al letto, nella stanza buia, e si sedette con leggerezza. Allungò la mano là dove sapeva che avrebbe trovato il calore del corpicino della figlia, ma lo accolse solo il materasso freddo.
   Mitch aggrottò la fronte e tastò più in là: nulla. Si alzò e, sempre al buio, si diresse verso il bagno personale della figlia.
   «Tesoro, sei lì?»
   Non ricevendo risposta aprì piano e infilò la testa per controllare, ma di Glenda nemmeno l’ombra. Richiuse con calma e si diresse verso la cucina. Forse era già sveglia, scalza come al solito e con i piedini penzoloni sullo sgabello da bar che le piaceva tanto.
   A quel pensiero sorrise e aprì la porta, ma il sorriso gli morì sulle labbra quando vide che anche la cucina era deserta.
   Con la fronte aggrottata si diresse verso il salotto, ma anche lì non c’era traccia della piccola.
   Ma dove diavolo si era cacciata?
   Si avviò verso il suo studio: probabile che fosse lì a pasticciare con i colori e a incasinarle il computer. Ma quello non era giorno di sgridate. Con una nonna morta tutto il resto assumeva un aspetto inconsistente.
   Spalancò la porta ma, a meno che Glenda non fosse diventata invisibile, era palese che lì non ci fosse nessuno.
   Poi gli venne un pensiero e si diede una manata sulla fronte: ma certo!
   Tornò di nuovo verso la propria camera da letto e aprì la porta, ascoltando. Gli parve di percepire un solo respiro ma, al buio, vide una piccola sagoma accanto alla moglie e sospirò tranquillizzandosi.
   Nonostante questo, si avvicinò silenziosamente per accertarsene e tastò il piumone, prima con calma, poi sempre più agitato. Fiona aveva preso il suo cuscino, per chissà quale motivo, e lo aveva stretto a sé.
   Poi lo aveva lasciato sotto la coperta e questo lo aveva tratto in inganno, facendogli credere che Glenda dormisse accanto alla mamma.
   Mitch, la bocca inaridita, si diresse verso il loro bagno privato.
   Vuoto.
   «Non è possibile.» sussurrò ad occhi sbarrati.
   Dal buio sentì la voce arrochita e impastata di Fiona: «Cosa?»
   Mitch sobbalzò e si avvicinò al letto, con voce tremante disse: «Glenda è scomparsa.»
   «Cosa stai dicendo, Mitch?»
   «Glenda è scomparsa! Non c’è! Ho visto dappertutto!» urlò.
   Fiona sussultò e accese la luce dell’abat-jour sul comodino. Gli occhi stravolti e la faccia impallidita, gettò al largo le coperte e si alzò di scatto.
   «Magari si è nascosta nell’armadio. Glenda!»
Dopo aver ispezionato da cima a fondo tutte le stanze, Fiona si buttò affranta sul divano. Scossa da un tremito convulso, aveva le mani nei capelli e la testa china verso il tappeto. Di scatto la sollevò e con occhi febbrili disse a Mitch:
   «I vicini!»
   Mitch, come colpito da una scarica di corrente elettrica, si alzò in sincrono con lei e, correndo, si diressero alla porta.
   Si divisero e cominciarono a bussare ai vicini. Furono tutti estremamente gentili ma, purtroppo, nessuno di loro pareva averla vista.
   Rientrata a casa, Fiona chiamò le madri di Annabelle e Mary. Chiamò la maestra, la scuola, la chiesa, la piscina.
   «Niente! Niente! Niente!» strillò stravolta, sbattendo giù il ricevitore. «Cosa fai? Chi chiami?»
   «La polizia.» Rispose Mitch, afferrando il telefono, scuro in volto e con le mani che tremavano vistosamente. Sbagliò il numero due volte e alla terza vi riuscì.
   Fiona, in preda all’ansia, andava alla finestra della cucina, poi tornava a sedersi, per poi rialzarsi a vedere da quella del salotto.
   Mezz’ora dopo si presentarono due agenti e presero a fare domande e a scrivere le risposte su un taccuino.
   Quando seppero che Fiona aveva appena perso la madre, i due le chiesero se la bambina avesse per caso ascoltato la loro conversazione e, sconvolta, fosse scappata per andare dal nonno.
   Ma appurarono che Glenda non era nemmeno lì.
   I due agenti, entrambi uomini di mezza età e padri di famiglia, osservarono scrupolosamente la camera della bambina, ma lì nulla lasciava pensare a storie di degrado o di maltrattamenti. Si guardarono in faccia e si dissero che, probabilmente, la piccola era uscita da sola per una sorta di infantile capriccio. Alla parola ospedale, Fiona scoppiò in lacrime.
   Nessuno dei due aveva pensato che la piccola potesse essere uscita di casa e investita. Era un’ipotesi spaventosa.
   Uno degli agenti fece diverse telefonate, infine chiesero loro una foto di Glenda per farne dei manifesti da affiggere nel quartiere e se ne andarono promettendo loro di farsi vivi qualora avessero trovato la piccola.
  
   Un mese dopo la scomparsa della loro adorata bambina, Mitch, non sopportando più la vista della casa delle bambole, decise di sbarazzarsene.
   All’insaputa di Fiona la prese, la mise in macchina e la depositò nel cassonetto più lontano da casa loro.

   Andy frenò di botto, non credendo ai propri occhi. Lungo Charles Street non vi era traffico a quell’ora ed ebbe pure la fortuna di trovare un parcheggio proprio davanti al negozio.
   Solo al pensiero della faccia felice che avrebbe fatto Aireen, un lento sorriso gli si affacciò sulle labbra. Andy tolse le chiavi dal pick up scassato e arrugginito e aprì lo sportello per scendere.

   Una fornace ruggiva allegramente nel retrobottega. L’uomo seduto innanzi al fuoco cuciva quietamente un minuscolo abito di seta verde. Un sorriso soddisfatto aleggiava sulle sue labbra pallide.
   Ad un certo punto nel fuoco ci fu uno scoppiettio più violento. Un rumore come di zuffa. L’uomo sollevò un attimo gli occhi e sussurrò:
   «Finitela. Adesso.»
   Subito il fuoco azzurrato si calmò e delle facce dannate e brutali apparvero al suo interno.
   Non era un fuoco normale. A ben guardare, vi apparivano delle facce bestiali che azzannavano, arti che sgomitavano, mani che afferravano l’aria, piedi che calciavano.
   Era davvero inquietante, ma all’uomo placido seduto lì sembrava non fare alcun effetto.
   Egli, infatti, prese delle forbicine e tagliò il filo. Aveva finito di cucire l’abitino.
   «Ecco, piccola mia. Il verde è un colore che ti dona moltissimo.»
   Dopo aver vestito la bambola dai capelli rossi e ricci e gli occhi verdi, si avvicinò alla vetrina.
   Un brusio concitato, tipo vespe chiuse in un barattolo, accolse il suo arrivo. Egli aprì un’anta della casa e vi posizionò la nuova arrivata. Poi la richiuse con delicatezza, ma i sussurri non cessarono, anzi, se ne aggiunse uno nuovo: uno strillo lacerante misto a singhiozzi convulsi.
   L’uomo strinse le labbra e aggrottò la fronte. Dopodiché si chinò verso la finestra della camera da letto e bisbigliò dolcemente:
   «Silenzio.»
   All’istante tutti gli squittii terminarono e un senso di terrorizzante quiete scese sulla casa.
   L’uomo si avviò al bancone, non prima di aver notato il brusco arrestarsi di un pick up sul marciapiede. Sorridendo gioiosamente, si rintanò nel retrobottega, dove fece sparire con calma la seta verde con cui aveva confezionato il vestito. Per ultimo, scoccando un’occhiata fredda e imperiosa, ridusse al lumicino la fornace e sedette di nuovo, incrociando le mani sul ventre piatto, attendendo.

   «C’è nessuno?» chiese titubante Andy. Ma un’altra occhiata alla casa gli fece prendere il coraggio a quattro mani ed entrò nel negozio.
   Dopo un po’, un uomo alto, magro e con i capelli nerissimi, gli si fece incontro. Quando sorrise Andy vide le grinze deformargli la faccia e sobbalzò.
   «Ma sa che lei mi ricorda moltissimo mio nonno?»
   L’uomo sorrise di nuovo, in maniera gioviale, e gli chiese con gentilezza cosa volesse.
   Andy si voltò di scatto, indicando la casa delle bambole.
   «È proprio sicuro?» gli chiese l’uomo, non muovendosi dal corridoio angusto pieno di robaccia.
   «Sì, sì. Appena l’ho vista me ne sono innamorato. La mia Aireen sarà felicissima!»
   «Vuole che gliela mostri?»
   «Sarebbe fantastico!»
   «Allora mi segua. A proposito, chi è Aireen?»
   «La mia bambina.»
   «Oh, che uomo fortunato. E quanti anni ha?»
   «Sette.»
   L’uomo sorrise brevemente e riprese: «Anime meravigliose, i bambini, non trova?»
   «Assolutamente.» replicò Andy.
   Quando i due furono davanti alla casa delle bambole l’uomo magro aprì le ante e accese le luci.
   Andy, rapito da ciò che vedeva, sorrise estasiato.
   «Posso prendere una di queste bellissime bambole?»
   «Prego. Solo faccia attenzione, sono molto delicate. La mia preferita è questa.» E prese in mano la piccola Sarah.
   Ma Andy era affascinato dalla bambola dai capelli fiammanti e gli occhi verdi. La prese in mano e ne studiò il visetto malinconico.
   L’uomo fece una smorfia di disappunto e tentò di mettergli sotto il naso di nuovo Sarah.
   «Chissà come mai questa bellissima bambolina è stata dipinta con la faccia triste.» si chiese Andy, meditabondo.
   Il vestito era di bella fattura e le scarpe pure. Ma, nonostante pizzi, trine e merletti, Andy era indeciso.
   Si voltò verso il proprietario e disse: «Sa, non vorrei che Aireen si rattristasse, capisce?» e riposizionò la bambola con delicatezza nel salotto.
   L’altro strinse con forza la piccola Sarah fra le dita, ma poi fece un sorriso mellifluo:
   «Giusto. In effetti, sono spiacente di dirle che questa bellissima casa delle bambole l’ho già promessa ad un’altra persona.» Mise Sarah accanto all’altra bambola e chiuse le ante.
   «Oh, beh… se dovesse averne un’altra, con bambole più allegre…»
   «Le farò sapere, sì.»
   «Allora arrivederci.»
   L’uomo lo accompagnò cortesemente alla porta, stampandosi un sorriso gentile sulle labbra e attese di veder svanire dietro l’angolo il pick up prima di voltarsi e raggiungere con calma la casa, da cui si era levato di nuovo un brusio addolorato.
   Aprì l’anta del salotto e afferrò con delicatezza la bambola vestita di seta verde, che si contorceva nella morsa di ferro. Avvicinò le labbra al suo orecchio e le sussurrò amabilmente:
   «La prossima volta che non sorriderai ti getterò nella fornace, Glenda.»
   La bambola rimase pietrificata. L’uomo la rimise a posto e chiudendo le ante sorrise, attendendo il prossimo acquirente. 
In fondo, a chi non piacerebbe avere una casa delle bambole?